About Lolita

drammaturgia Francesca Macrì e Andrea Trapani
con Gaja Masciale, Andrea Trapani, Francesco Villano
regia Francesca Macrì
aiuto regia Andrea Milano
luci Gianni Staropoli
video Lorenzo Letizia
direzione tecnica Massimiliano Chinelli
prodotto da Teatro Metastasio di Prato e Fattore K
in collaborazione con TWAIN Residenze di spettacolo dal vivo
anno di produzione 2020

Lolita è troppe cose per sintetizzarla in una frase sola.

È l’annebbiamento della testa, il sogno di paradisi possibili e inferni prossimi, un inno alla straordinaria potenza del pensiero, il nascondiglio dell’anima dentro cui scomparire e sprofondare, un omaggio alla fantasia, il delirio estetico-erotico di una fragilità, un viaggio lungo i lastricati sentieri della pornografia in cui il viaggiatore non cessa mai di sollevare lo sguardo verso i luccicanti paesaggi che costeggiano il peccato.

Lolita è lo straordinario romanzo di Nabokov, è l’immagine della ragazzina in costume da bagno che guarda senza pudore la macchina da presa e lo spettatore dell’ancora più noto, forse, film di Kubrick.

Lolita è una parola sul vocabolario, è una ragazzina che ciascuno di noi ha conosciuto, almeno una volta, nella vita, è un mito, un modo di dire, una proibizione, un implicito non esplicabile, un fatto scabroso, un trafiletto nella cronaca nera, un peccato, è il ricordo delle bambine che siamo state, è la violazione dell’infanzia e al contempo il disegno di un’infanzia e di una preadolescenza che ancora facciamo fatica ad accettare nella loro sconvolgente sessualità.

Lolita è un verbo: è giocare con il fuoco, è inciampare, fraintendere, desiderare fino a rimanere senza fiato. Lolita è più di ogni cosa, nel quotidiano, un giudizio, ma per noi è innanzitutto un dialogo con l’arte che per sua natura, per essere tale, non può che accogliere in grembo, insieme, dolore e piacere, beatitudine e tortura.

Lolita è roba da censura.

Ma si può censurare il piacere? O il pensiero del piacere?
E che differenza esiste tra il piacere pensato e il piacere agito?

FOTOVIDEORASSEGNASGUARDI CRITICI

«Lolita è una parola sul vocabolario». Questa la frase che mi ha colpito subito quando ho letto le note con cui la compagnia Biancofango presenta «About Lolita», perché è una frase che centra direttamente (e con una sintesi eclatante, tramata insieme di acume e icasticità) il problema costituito dal celeberrimo personaggio di Nabokov. Lo spiego partendo da una dichiarazione resa da Luca Ronconi quando, nel 2001, allestì l’adattamento della sceneggiatura scritta da Nabokov per il film che Kubrick doveva trarre dal suo romanzo e che poi il regista inglese non utilizzò: «Vogliamo raccontare la grande e pericolosa storia di un amore insensato».
Bisogna chiedersi di che genere sia quest’amore «insensato», e perché la sua storia sia, nello stesso tempo, «grande» e «pericolosa». E la risposta è molto semplice. Lolita, la ninfetta per antonomasia, non esiste: o, meglio, esiste soprattutto in quanto metafora degli Stati Uniti, dove il russo Nabokov s’era trapiantato, e dell’idioma a lui «straniero» (sotto ogni profilo) che giusto per ritrarre gli Stati Uniti lo scrittore nato a Pietroburgo aveva dovuto adottare. Lo stesso Nabokov, infatti, confessò che «il vero senso» del suo romanzo «è che si tratta di un affare amoroso tra l’autore e la lingua inglese». (…) Ma, in proposito, un’altra frase delle note di Biancofango dobbiamo prendere in considerazione: «Lolita è un verbo». (…) Ed ecco il punto: per Biancofango il personaggio Lolita è la «parola» (la chiusura del personaggio Lolita medesimo nel romanzo di Nabokov, di cui qui non si avvertono che pallidi echi) e lo spettacolo da quel personaggio ispirato (drammaturgia di Francesca Macrì e Andrea Trapani, regia di Francesca Macrì) è il «verbo», il caleidoscopio di suggestioni e riflessioni d’ordine generale (voglio dire relative a questioni che trascendono di gran lunga il personaggio Lolita in sé) indotto dal capolavoro nabokoviano.
Biancofango non avrebbe potuto dirlo meglio: «Per noi Lolita è innanzitutto un dialogo con l’arte». E quindi, aggiungo io, «About Lolita» è lo scontro fra lo scrivere e il vivere, fra la letteratura e la quotidianità.  In breve, l’approdo vertiginoso di questo spettacolo – tanto difficile quanto stimolante, e illuminato da un’intelligenza rara – sta nel fatto che, per esprimermi con Sartre, assume Lolita come un «corpo verbale», ossia come il corpo virtuale determinato dall’intrecciarsi e fondersi dei linguaggi che oggi noi adoperiamo (o, meglio, siamo). Non a caso, del resto, si citano «Orgia» di Pasolini e «Il soccombente» di Bernhard. (…) Di qui il fatto che ad «About Lolita» venga conferito l’impianto di una partita di tennis. (…) Si sarà capito, a questo punto, che molto opportunamente lo spettacolo alleggerisce la tensione innescata dal suo severo carattere teorico con mirate escursioni sul terreno di un’assai godibile ironia straniante. (…) Ma, poi, il discorso di Francesca Macrì e Andrea Trapani ricomincia a volare alto quando Lolita s’identifica con la Nina de «Il gabbiano» di Cechov: comincia col dire «Anche io da grande voglio fare l’attrice» e finisce col gridare «Io sono un gabbiano! Sono un gabbiano! Sono un gabbiano!». E lo sappiamo, il tema centrale de «Il gabbiano» è l’impossibile riscatto da una vita larvale sulla base dell’utopia culturale.
Nel romanzo le ultime parole di Humbert Humbert sono: «… finché in questa mano che ora scrive pulsa il sangue, tu resti quanto me parte della beata istoria. Posso ancora parlarti, e farti vivere nella memoria delle generazioni a venire. Penso agli uri e agli angeli, al segreto dei pigmenti duraturi, ai sonetti profetici, al rifugio dell’arte. Ed è questa l’unica immortalità che tu e io possiamo condividere, mia Lolita». E il solito personaggio più volte menzionato (Francesco Villano), dopo averle citate come se fossero una battuta del copione, s’affretta a specificare: «Ma questa non è mia. È di Nabokov». Questa specificazione rappresenta l’estremo e paradigmatico affondo di Biancofango contro quello che, per dirla con Blanchot e riandando alla dichiarazione di Ronconi di cui all’inizio, è il gioco «insensato» di scrivere.
Ora, venendo alla messinscena, mi limito a dire, riassuntivamente, che la regia di Francesca Macrì la innerva con una serie ininterrotta d’invenzioni tanto puntuali quanto «sfuggenti», nel senso della multiformità e della plurisemanticità che le connotano. A partire dai bellissimi video di Lorenzo Letizia: come, poniamo, quello in cui compaiono i corpi nudi dei personaggi fluttuanti nelle profondità acquoree; o quello in cui, sull’onda della musica di Nino Rota per «Amarcord», uno dei due personaggi maschili compie gesti pressoché impercettibili sul corpo di una Lolita senza mutandine. E in mezzo azioni assolutamente emblematiche e allusive come quella beckettiana del personaggio maschile che mangia una banana e ne getta la buccia dietro le quinte. Finisce con i due personaggi maschili che, illuminati da un enorme riflettore cinematografico piazzato da Lolita prima di sparire, s’inseguono freneticamente in tondo mentre Lucio Dalla canta, manco a dirlo, «Cara»: «Conosco un posto nel mio cuore / dove tira sempre il vento / per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento». Poi cala un velatino che chiude completamente il boccascena e su cui, in primissimo piano, appaiono prima il volto di Lolita (tanto grande da risultare del tutto irreale) e poi Lolita seduta in un campo sotto lo sguardo (l’ennesimo, impagabile guizzo d’ironia) di un gigantesco toro.
Inutile sprecare parole sulla perfetta adesione a quest’insieme degl’interpreti Gaja Masciale, lo stesso Trapani e Francesco Villano. E piuttosto mette conto di ricordare la frase di Jean-Luc Godard che a un certo punto viene proiettata sul fondale: «Il cinema mente, lo sport no».
La segue l’interrogativo: «E il teatro?». Ecco, il teatro. «About Lolita» è per me una piccola consolazione, perché invera tutto quanto da anni vado sostenendo. Uno spettacolo deve negarsi, proprio come spettacolo, nel momento stesso in cui si fa. E dunque, in generale, il teatro, che conosce solo l’opzione del presente, deve uscire da sé. Dev’essere la racchetta spaccata da McEnroe. Enrico Fiore, Controscena


Il romanzo di Vladimir Nabokov? O la pellicola di Stanley Kubrick? About Lolita, la nuova drammaturgia di Francesca Macrì e Andrea Trapani per Biancofango, li schiva entrambi, libro e film. Bene. (…) Ci sono immagini che restano nella memoria di una generazione e non se ne vanno più. Tra queste, Lolita. Gli occhiali a cuore, il lecca lecca, la linguetta fuori: la foto che ha reso immortali Sue Lyon e il film 1962 di Stanley Kubrick. L’attrice allora aveva quattordici anni, il suo personaggio dodici. Nel 2019 Lyon è morta in povertà. Però è impossibile dire o pensare oggi “qualcosa su Lolita” senza che per la testa si disegni ancora quella icona. Bene allora ha fatto Francesca Macrì, regista di About Lolita a consigliare gli stessi occhiali a Gaja Masciale. Che della ragazzina di sessant’anni fa è la reincarnazione, oggi. Capricciosa, sgarbata, maliziosa, ingenua finta, o perturbante tennista, come la voleva Nabokov nel suo scandaloso romanzo. Adolescenziale, ma non ninfetta, come invece l’avrebbe definita il parlare comune. Che in sessant’anni per fortuna si è evoluto un po’. Nell’America anni ’50 il romanzo fece scandalo – “è pornografia” si scrisse – per la storia pruriginosa del quarantacinquenne che si invaghisce della dodicenne e la rapisce, portandosela appresso in fuga tra stanze in affitto e motel del Midwest. Nel frattempo, ne abbiamo viste e sentite così tante, che occuparsi di Lolita altro non può voler dire oggi che puntare gli occhi su certi sguardi predatori, sulla competitività sessuale tra maschi, sulla devastante miscela di potenza e fragilità dei comportamenti odierni. Come appunto fa Biancofango. Senza impartire lezioni, magari lasciando che sia il pubblico a giudicare. (…) Perché il lolitismo è diventato questione di marketing, pagina di cronaca vera, sintomo culturale. A sdoganare il termine in Italia – vi ricordate – è stata Non è la Rai: un’idea e una trasmissione di Gianni Boncompagni. Era il 1991. Mentre supera tutto questo, schivandolo, About Lolita mette in tensione il filo dei piaceri illeciti, delle tentazioni, di ciò che turba, qualsiasi sia l’età : adolescenti appena usciti dal gioco dell’infanzia, adulti cui la maturità non fa da freno. Per ciascuno di noi, l’età non è che un mancato pretesto. È ben congegnato, perciò About Lolita. Non illustra il romanzo, non scimmiotta il film, né esprime giudizi sommari. È interessante, perché tiene avvinti gli spettatori per tutta la durata, incatenandoli nel gioco maledetto delle età. È un bel vedere, perché la scena è essenziale, semplice, pulita. Così come gli interpreti. (…) La drammaturgia di About Lolita prende altre vie. Non le autostrade infinite degli Usa, ma i campetti da tennis dove i quarantenni italiani in carriera si tengono in forma con le racchette. E adocchiano le ragazzine. Se non ricordo male, nel film c’era poco tennis. Sport che a Nabokov scrittore piaceva un sacco. Mentre Kubrick cineasta non ne capiva niente. Nello spettacolo invece si gioca a tennis tutto il tempo. E piace ai tre protagonisti rievocare l’aforisma di Jean-Luc Godard secondo il quale “il cinema può mentire, lo sport no”. Per questo trascinano a un certo punto in scena un enorme riflettore da teatro di posa. Come se volessero dirci: il cinema mente sempre. E sono giustamente in forma Andrea Trapani e Francesco Villani, in braghetta bianca griffata e molleggio di gambe. E si esibisce in tutta la sua giovinezza Gaja Masciale, tra bambinerie e trash food da far paura, ma con robuste briglie per tenere a bada i suoi due scalpitanti pretendenti, sempre carichi di regali e di attenzioni per la loro bimba. Credibili tutti. Nonostante sia vero che anche il teatro mente, pure quando ci fa vedere uno sport: un tennis dove non si tocca palla. Perché la palla non c’è. Va immaginata. Ciò che vola, tutt’al più, è un chewing gum, un chupa chups, una patatina fritta. Roberto Canziani, Quantescene!


 Il desiderio è lo stimolo, il pungolo di possedere ciò che manca. Più l’oggetto è distante, più la volontà si fa smania, nella testa e nel corpo. Il pensiero e il bisogno diventano tutt’uno e spingono in un’unica direzione: averlo, averlo, averlo. Quanto si ha già tra le mani non conta più, vale solo e soltanto quanto non si ha, e si vuole a qualunque costo. Vivere diventa così inseguire il “non essere ancora”. Secondo il filosofo Ernst Bloch è un orizzonte di futuro reale come possibilità oggettiva. I Biancofango in About Lolita lo trasformano, piuttosto, in una nostalgia del passato, in un rimpianto della giovinezza, in una lotta carnale al dolore di “non essere più”.
Dunque, Francesca Macrì e Andrea Trapani affrontano e attraversano l’immaginario su (e a partire da) Lolita, quello costruito dal romanzo di Vladimir Nabokov e dai film di Stanley Kubrick e di Adrian Lyne, usando come bussola una partita fisica e dialettica con il tempo, tra ammissioni di colpa, fallimenti e l’estrema e strenua ossessione dell’uomo adulto di restare giovane. Ovvero, succhiando la gioventù dall’impossibile: la ragazzina ninfetta per antonomasia.

Siamo davanti al lavoro di riscrittura di un classico che (…) ci riporta dritti dritti (al)la nostra realtà, con irriverenza mista a compassione. Per giunta, apre un dittico: il prossimo spettacolo, Never Young, racconterà «i Peter Pan al contrario, quei bambini – spiega Macrì – troppo desiderosi di diventare grandi, incapaci di restare nel confine ristretto che dà l’infanzia».
Al contrario, il palcoscenico del Teatro Fabbricone di Prato è il simulacro di un campo di terra rossa battuta dal disegno luci antonioniano di Gianni Staropoli e da un grande schermo su cui scorrono i video impressivi di Lorenzo Letizia, con tutti i non detti e i non visti sulla scena. Il rettangolo è privo di linee, demarcazioni, limiti. La partita, diretta da Francesca Macrì, che si gioca qui sopra è senza esclusione di colpi: la vittoria giustifica ogni mezzo.

Teatro e sport è un tema che fonda la ricerca dei Biancofango fin dagli esordi. Ma il tennis è proprio centrale in Lolita: il protagonista, Humbert Humbert, è un ex giocatore di buon livello, come lo stesso Nabokov del resto. Inoltre, sono racchette e palline a costruire il legame tra lui e la dodicenne Dolores Haze, vezzeggiata con il nomignolo di “Lolita”, ma anche “Lo” e “Dolly”.
In About Lolita il tennis diviene metafora della competitività individualistica nella nostra “società della performance” – in generale – e del protagonista e dell’antagonista, Humbert Humbert e Clare Quilty – in particolare – per ottenere il bene più prezioso ai loro occhi. Difatti, i personaggi sul palco, ridotti ai tre essenziali, sono tutti vestiti da tennisti: l’Humbert di Francesco Villano ha un completo Adidas, il Quilty di Trapani ne ha uno firmato Sergio Tacchini, la Lo di Gaja Masciale ha maglietta e calzoncini Head.

Sul terreno rosso di battaglia spicca quindi il bianco, il colore tanto dell’ossessione abbagliante quanto della pura innocenza, screziato di nero, che è il lutto, la morte, ma anche lo stampo delle marche, cioè l’impronta del capitalismo. Se a terra non ci sono punti di riferimento, non esistono confini precisi nemmeno nei rapporti tra il bene e il male, come tra la vita e la morte, tra la verità e la finzione, come tra l’interprete e il ruolo. Infatti, Trapani e Villano parlano anche come Andrea e Francesco, si studiano e si scontrano sulla loro vita di attori, sui debiti verso i loro maestri, sui testi che vorrebbero rappresentare e tuttavia non riescono a fare. Sanno di trovarsi in un teatro, di fronte a un pubblico, si ascoltano e si commentano a voce alta: quando la battuta non viene bene, provano a ripeterla.

Prima giocavano di più e questo incontro avrebbero dovuto farlo ventidue anni fa. Il colpo di teatro nel teatro è intrigante e rivelatore: per loro Lolita è lo spettacolo stesso. A più ampio raggio, per un attore il tormento più assillante di tutti è non poter tornare indietro ed essere pronto quando, a suo tempo, non lo è stato. Andrea, ad esempio, ora che avrebbe l’età per impersonare Trigorin vorrebbe essere Kostja, ossia il ragazzo che crede ancora in qualcosa. Il gabbiano di Anton Čechov, autore molto stimato da Nabokov (esule negli Stati Uniti insegnò letteratura russa al Wellesley College e in seguito alla Cornell University), è lo specchio decisivo che ritrae il volto incarognito degli adulti che vampirizzano i giovani e poi li abbandonano depredati di qualsiasi slancio vitale. Non a caso, Lo si trasfigura in Nina e nella sua libertà perduta dietro false promesse. Succede dopo uno scambio con Quilty senza pallina, alla Blow-Up, un inno artificioso all’uso del coraggio rivolto dall’uomo fatto e finito alla ragazzina vivace e incostante. «La vita è come il tennis – scrive David Foster Wallace in Infinite Jest – vince chi serve meglio». L’inizio chiama l’esito, il servizio vale quanto l’ultima parola. In fondo, comunque, la gara riguarda chi la riconosce, ci si riconosce, e basta. Ovverosia, chi ne ha bisogno. Lo/Gaja ha ciò che le serve: è giovane. Se ne frega di tutto, perfino di sé stessa. Per questo, alla fine si sottrae alla sfida. Humbert/Francesco e Quilty/Andrea, all’opposto, non hanno altro, e ci gireranno intorno finché avranno fiato in corpo.

L’uomo che non accetta il tempo che passa pensa di poter sfogare il proprio risentimento sulla ragazzina che invece ha davanti tutto il tempo del mondo. Una pretesa illusoria di assurda soddisfazione, che rivela esattamente ciò che vorrebbe cancellare: solo l’avanzare dell’età fa chiedere conto alla vita della vita. È la tragedia amara, brutale, disturbante, di About Lolita. Matteo Brighenti, PAC – paneacquaculture.net


About Lolita è mito e rito della nostalgia della giovinezza, di un’infanzia che diventa adolescenza aggredita da un quasi padre e da un suo amico su un campo da tennis. (…) Lolita attraversa le attenzioni ambigue dei due uomini, senza farsene vittima, giocandoli con la sua purezza, con la sua forza, in un certo senso snudandoli nel bisogno di fuga dall’età adulta che inclina nella decadenza verso l’oro di un rimpianto. Molto bella la partita di tennis senza palla, segno di uno spettacolo che gioca a nascondino con la realtà e si proietta nel bisogno di altre dimensioni. Massimo Marino, Doppiozero, parlando di più spettacoli visti alla Biennale 2020


 Un nome che funziona da immaginario e da specchio. Come pochi altri Lolita evoca mondi e trasgressioni, parallelismi letterari e cinematografici, inquietudini esistenziali e dolori generazionali. La scoperta di Lolita si arricchisce di un nuovo capitolo. Che non viene direttamente dal romanzo di Nabokov né dal film di Kubrick quanto da una riflessione di cosa sia rimasto oggi, nella confusa diaspora contemporanea, di quello che a tutti gli effetti è uno scandalo che turba, crea disagio e pone traumatici interrogativi, ma anche un modo di dire, una proibizione, un fatto scabroso, un trafiletto nella cronaca nera, un peccato. Si chiama infatti “About Lolita” lo spettacolo della compagnia Biancofango, coprodotto dal Metastasio, che giovedì sera (dopo una uscita subito sospesa causa Covid alla Biennale Teatro 2020) praticamente debutta al Fabbricone per la drammaturgia di Francesca Macrì (che firma anche la regia) e Andrea Trapani. La rielaborazione di Biancofango, totalmente ambientata in un campo da tennis, isola alcuni momenti del testo nabokoviano e li fa attraversare da una serie di riferimenti teatrali che diventano lente di ingrandimento per far emergere altro: così, accanto a Lolita impersonata da Gaia Masciale, si ritrovano i personaggi di Humbert e Quilty (rispettivamente Francesco Villano e Andrea Trapani) (…) C’è poi un tema parallelo al racconto con i due personaggi maschili che vestono anche i panni di due attori e manifestano un costante riferimento ai maestri e ai drammaturghi che li hanno segnati, in particolare Cechov che Nabokov stimava molto, in quell’equilibrio formale, ancora più che tematico, che appartiene a entrambi, tra realtà e sogno, tra sprofondamento e elevazione, tra piacere e dolore. Gabriele Rizza, Il Tirreno


“Il cinema mente, lo sport no”. La citazione di Jean-Luc Godard non si trova in esergo, ma viene proiettata soltanto verso la fine del debutto di Biancofango al quarto anno della Biennale Teatro curata da Antonio Latella. (…) About Lolita non è un adattamento, però, quanto una riscrittura che isola alcuni momenti, li rielabora e li fa attraversare da una serie di riferimenti teatrali che diventano lente di ingrandimento, richiamo provocatorio, ricordo nostalgico. Che c’entra allora quella citazione con cui abbiamo aperto? L’abbiamo intesa innanzi tutto come un suggerimento di lettura delle bellissime immagini video che aprono lo spettacolo: una donna in mezzo all’erba di campo che scruta in camera con un sorriso accennato, ambiguo; si gode il piacere estatico del vento che le frusta i rossi capelli e, nel contempo, sembra quasi tralasciare un dolore inespresso. Strega e Madonna, assume, nell’inquadratura successiva, una postura cristica, totalmente immersa in un ambiente marino; ben presto alla sua figura si sostituisce quella di un uomo, ma sul suo volto la sofferenza è palese, anche se trattenuta come il respiro sott’acqua o come l’urlo che mozza le parole. (…) E se il cinema può mentire, o meglio può raccontarci un di più del reale, cosa racconta invece la scena? Totalmente ambientata in un campo da tennis, la regia di Francesca Macrì isola le funzioni di Humbert (qui interpretato da Francesco Villano, misuratissimo nel gestire viscidezza e supplica genuina), di Lolita (Gaia Masciale energica, leggera e spietata) e dell’ambiguo Quilty (Trapani stesso, che rende umano un personaggio altrimenti di contorno); tralascia la madre di lei e la sua morte, il giovane amante, i viaggi senza fine per i motel e la provincia americana, la fuga, il riscatto, la fine. A rimanere è l’espressione del piacere raccontato a mezza bocca all’amico/antagonista, quello desiderato e promesso soltanto in uno scambio di sguardi, nella foga ad ingozzarsi di leccornie dannose (lollipop, marshmallow e fonzies che inondano a un certo punto le gambe della ninfetta) e, soprattutto, nel lungo allenamento-amplesso, in cui le quattro fasi della battuta del tennis diventano l’espediente per dare suono al godimento e allo sforzo e alla disperazione. Come quello sport che non mente, così, come due palline fuori controllo, scattano Lolita e il suo patrigno, avviluppati in un gioco che non sanno né come proseguire né come terminare, ma l’intento sembra proprio quello di rimanere sospesi nell’attimo. L’intuizione interpretativa, che pure trova un aggancio nel romanzo, in quanto davvero il tennis è uno sport amato dalla protagonista, diventa il segno e nel contempo l’ambiente concreto in cui far vivere questo dramma sospeso, in cui piacere e dolore sono parimenti mescolati. Questa sospensione, del resto, si ritrova negli scambi di battute tra i due uomini, che parlano dell’impossibilità di trovarsi, ma manifestano al contempo anche una evidente impossibilità dialogica, dove ogni risposta slitta rispetto alla domanda, è sfasata o in netto contrasto. I due, come Casey e Jerry dei Tradimenti di Pinter, celano, dietro l’alone di cordialità e la presunta amicizia di lunga data, sospetti, insinuazioni, gelosie, senso di rivalsa. Attori anche da personaggi sono uomini del loro tempo, con il peso di una generazione in crisi e dell’età che avanza, che più che stordire in contrasto all’età di colei per cui hanno perso la testa, è afflizione innanzi tutto lavorativa, piena di rimpianti, impantanata nella logica dei progetti, del costante e insuperato riferimento ai maestri, ai drammaturghi che li hanno segnati, all’ambiente teatrale con le sue idiosincrasie. A emergere, in questo secondo habitat che diventa quasi un tema parallelo, c’è la presenza di Čechov (che Nabokov stimava molto) e un raffronto con Il gabbiano, come a suggerire similitudini tra Nina e Lola o tra Humbert e Trigorin, in quell’equilibrio (formale, ancora più che tematico) che appartiene a entrambi gli autori, tra realtà e sogno, tra sprofondamento e elevazione, ancora una volta tra piacere e dolore. About Lolita è uno spettacolo chiaro nelle sue intenzioni, con un’ottima compagine attoriale, in grado di confrontarsi con un gigante della letteratura e restituirne una visione. (…) Viviana Raciti, Teatro e Critica