Romeo e Giulietta / ovvero la perdita dei padri / ROMA

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(Italiano) Soffrono tutti i ragazzi che Shakespeare delinea in quello che sempre più, ad ogni rilettura, appare come un affresco tra Padri e Figli. Soffre Romeo nel suo innamorarsi di tutto. Soffre Giulietta nel sentirsi troppo presto ingannata dal mondo degli adulti. Soffre Rosalina, questo splendido ritratto muto che ai margini del testo cerca silenziosamente di farsi spazio e di darsi dignità. Soffre Benvolio perennemente alle spalle di qualcuno. Soffre Mercuzio, non ci crede che deve morire, lui proprio lui. Soffre Tebaldo in quest’ira furibonda e senza fine da cui non può che uscirne sconfitto. E insieme a loro, tutti gli altri, una moltitudine, eppure ognuno di una singolarità e di un’umanità commoventi. Non sanno cosa sia l’amore eppure ne parlano continuamente. Non sanno cosa sia l’odio eppure cercano ossessivamente di darne una forma. Vagano per la porca città, inciampano nelle parole, cercano di lottare contro un mondo che non ha spazio per loro. Urlano, strepitano, non sanno dove andare e vagano, vagano, vagano. Sono stati scritti quattrocento anni fa, ma non ci sembrano lontani dai ragazzi di oggi. Per questo in questi quadri da Romeo e Giulietta abbiamo chiamato a interpretare i ragazzi del testo shakespeariano proprio gli adolescenti e accanto a loro due attori nei ruoli dei Padri, un principe che parla da oltre il cielo del teatro e un violoncello che attraversa la scena per raccontare con la sua musica la poesia di questo scontro tra vecchio e nuovo.
Insieme a tutti loro, in questa lotta eterna tra Montecchi e Capuleti, ma anche fra Padri e Figli, giovani e vecchi, realtà e immaginario: il calcio. Non quello spettacolarizzato dai mass media, ma quello delle partite nei piazzali sotto casa, nelle strade, negli angoli dei quartieri, con palloni sgonfi o lattine vuote, con i giubbotti a far da pali e i genitori che ancora irrompono per dire che bisogna andare via, che la cena è pronta, che la partita la si può finire anche il giorno dopo. Il giorno dopo? E come spiegare al mondo che a volte le partite non finiscono mai?
Così Romeo e Giulietta smette di essere una storia d’amore e diventa quello che più profondamente è: una storia, come direbbe Pasolini, di giovani infelici, una storia di non ascolto, di fallimento trans-generazionale, di errori troppo tardi riconosciuti e di un tempo, un tempo, troppo severo nel suo scorrere inesorabile.

(Italiano)

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All’inizio, mentre il pubblico si sitema ancora in tribuna, giocano a pallone, rumorosamente, sudando, urlando, gli adolescenti delle squadre dei Montecchi e dei Capuleti. (…) Romeo e Giulietta, ovvero la perdita dei padri, con drammaturgia della regista Francesca Macrì e di Andrea Trapani ha attraversato Shakespeare e ha conservato solo un canovaccio della tragedia originaria. La partita caotica di football è da piazzola di periferia. Il testo è uno scontro tra due branchi di giovani coi padri dei due innamorati che sono tutori assenti, seduti in panchina come allenatori, col giornale in mano. Il papà di Giulietta ha sprazzi da dj. La massa acerba è protagonista come per un Signore delle mosche: goffa, disincantata, sofferente, stizzita, incline a una brutta fine, a volte messa fuori gioco con un’alzata di cartellino. Belli perché anche brutti. E l’emarginata Rosalina si prende la rivincita sparando una poesia di Campana. E il grasso Mercuzio sì che impreca. E il principe ha la voce off di Federica Santoro. E la balia viene assorbita dalle amiche di Giulietta, dolce ragazza qualsiasi, alle prese con un Romeo introverso, tutt’e due condannati a finirla passando in rassegna in mezzo agli altri, mentre il morire a vent’anni è un lamento serio di Gino Paoli dall’Albergo a ore. Francamente un’impresa ruvida, dolce, da sostenere.
Rodolfo di Giammarco, la repubblica


L’ultimo lavoro di Biancofango è interessante per due diversi ordini di motivi. Innanzitutto per essere nato da un’esperienza di laboratorio con un gruppo di attori giovani e giovanissimi, i cui risultati sono ben evidenti in scena. Una dozzina di corpi scatenati e padroni di sé, che mostrano non solo agilità fisica, ma soprattutto la capacità vocale di tenere con sicurezza registri diversi (…). Riscrivere oggi Shakespeare è assai rischioso, perché tutto corre il pericolo di essere stato già visto e sentito. Ma i ragazzi preparati dalla regia di Francesca Macrì, anche drammaturga dello spettacolo insieme ad Andrea Trapani (che è pure in scena nelle vesti di Messer Capuleti) se ne appropriano in profondità e lo offrono al pubblico con intraprendenza assoluta. (…) Ma è proprio la parola ‘sport’ che dà la chiave per spiegare l’altro motivo di interesse del lavoro. Perché se è facilmente immaginabile che il riferimento vada anche all’atletismo della ragione e dei sentimenti, c’è fin dall’ingresso in sala una sana pratica agonistica (…) che vede i ragazzi e le ragazze dar luogo ad un allenamento calcistico, dove è compreso perfino l’immediato rinvio allo scontro di tifoserie di Capuleti e Montecchi (molto più pertinente di altre divisione in gang malavitose o tra rivali cucine di pizzeria, come si son viste in anni recenti). Il ritmo e il sound del calcio resta il leit motiv di un’energia oppositiva che nessuno può riuscire a fermare. La morte di Mercuzio e quella di Tebaldo diventano risse a bordo campo, ma il vero nodo dell’amore e delle scelte di vita resta un privilegio privato. Tanto che nel finale, la scena più bella e commovente, la morte dei due ragazzi infelici sostituisce alle traversie che si succedono nella cripta di Frate Lorenzo, il suicidio di coppia struggente, quasi dilaniante, della bellissima Albergo ad ore di Herbert Pagani, nella versione cantata da Gino Paoli. Un potente colpo di teatro, che riporta il teatro elisabettiano alla sua bruciante contingenza (…)
Gianfranco Capitta, il manifesto


Jeans e camicia bianca, un ragazzo e una ragazza si guardano negli occhi stando in piedi uno davanti all’altra; dondolano sulle loro scarpe da ginnastica Adidas, barcollano, si avvicinano, si baciano sfiorandosi, e ancora dondolano: così fragili eppure così veri, così eterni. Lei ha un viso già adulto e due occhiali che le ingrandiscono lo sguardo intelligente; lui un sorriso generoso, occhi lucenti e un caschetto moro che gli dà un’aria un po’ dannata. È con questa immagine teatralissima che i giovani Lorenzo Fochesato ed Erica Galante danno ali al loro innamoramento in uno dei passaggi più poetici del poetico Romeo e Giulietta, ovvero la perdita dei Padri firmato da Francesca Macrì (drammaturga e regista) e Andrea Trapani (drammaturgo e interprete) per il Teatro di Roma e andato in scena al teatro India nei giorni scorsi. Lorenzo ed Erica sono due dei dodici adolescenti “reclutati” in diversi licei della capitale e allenati svariati mesi per raggiungere un traguardo che va ben al di là del debutto e che meriterebbe senza dubbio lunga vita. (…) All’ingresso del pubblico, il palcoscenico, completamente vuoto se non fosse per due panchine e un piccolo tavolo posti sul fondo, è già diventato l’agone di una partita di calcio dove i corpi si scontrano e combattono. Le due bande rivali dei Montecchi e Capuleti non si fronteggiano dunque a furia di duelli e colpi di spada, bensì tirando il pallone ma su un campetto di calcio, metaforicamente assurto a simbolo pasoliniano di una stagione della vita in cui è quanto mai significativo vincere o perdere, rischiare o stare in panchina, resistere o uscire di scena. Laddove uscire di scena sta esattamente per morire (si veda l’uccisione di Mercuzio, quella di Tebaldo e la splendida scena del suicidio finale di Romeo e Giulietta): essere espulsi da quei padri/arbitri glaciali e lontani che con questi adolescenti, con i loro stessi figli, non hanno nulla da spartire, se non che un cartellino nero dai risvolti tragici. Già, i padri. Chi sono qui i padri? Due attori più o meno quarantenni, Trapani (padre Capuleti) e Simone Perinelli (padre Montecchi), entrambi molto bravi per quanto diversissimi per stile e percorso professionale (…) Unico adulto ammesso a gettare lo sguardo nella verità dei ragazzi è il violoncellista Luca Tilli, pregevole nel dare corpo musicale ai momenti salienti del lavoro (così come già faceva in Culo di gomma) ma anche a confondersi tra i personaggi come fosse un folletto buono, o un Pinocchietto silenzioso che vaga incolume per il campo, mentre il destino rotola dentro una palla. Un destino feroce con molti: ai versi di Dino Campana si affida l’intenso monologo di Rosalina/Maria e il suo pianto é il lamento di ogni abbandono, di ogni occasione perduta (sarà infatti lei a chiudere l’intera pièce); mentre sono le note della canzone Albergo a ore cantata da Gino Paoli ad accompagnare l’ultimo gesto eroico dei due innamorati infelici: quel volo ancora una volta leggero, dondolante, fragilissimo, con cui si accomiatano dal mondo per sempre. Ma è difficile credere che la loro sia realmente una sconfitta.
Laura Novelli, Paneacquaculture


Uno dei testi simbolici della storia teatrale è Romeo e Giulietta, scritto da Shakespeare alla fine del 1500, si presume. È universalmente considerata una storia d’amore e così tramandata. Ma sotto la superficie della vicenda, molto frequentata nei secoli successivi, essa conserva caratteri duri ed eterni con cui la nostra contemporaneità deve misurarsi; c’è più di tutto un senso lancinante di sofferenza, un patimento silenzioso che trova nel passaggio generazionale e nelle relazioni familiari il suo più furente campo di battaglia. Perché di una guerra stiamo parlando, quella degli uomini contro gli uomini, secondo i diversi gradi di maturazione. Hanno lavorato seguendo questa linea primaria Francesca Macrì e Andrea Trapani di Biancofango per questo Romeo e Giulietta, ovvero la perdita dei padri che ha debuttato al Teatro India – grazie alla produzione del Teatro di Roma – con dodici attori adolescenti coinvolti nei mesi precedenti attraverso una lunga fase di laboratorio. Siamo nel mezzo di una partita di calcio in un campetto improvvisato per la strada, due squadre di avversari, ma forse meglio dire di nemici. L’ambiente è caldo, si fatica a tenere vivo il gioco per le continue interruzioni: i contendenti si scambiano parole, insulti, provocazioni; le parole vengono dal testo, il resto appartiene al clima creato dal poeta inglese affinché quelle stesse attraversassero epoche e contesti (con tutta la volgarità che vi si possa trovare). Nessuna scenografia, il palco denudato per farci stare dentro un mondo intero, anzi due, contrapposti; non ci sono che due panchine e altrettanti microfoni tra le mani dei padri, potenti, allenatori della vita familiare e civile, creatori dell’ordine, ma anche delle ostilità; speculare la loro latente partecipazione: uno è Montecchi (Simone Perinelli), l’altro è Capuleti (Andrea Trapani). Un violoncello misura le urla e lo stridio, ordina la lite continua, gli scontri del loro ardore che è – insieme – anche un movimento di conservazione. È Luca Tilli, sembra sempre capitato sulla scena per caso, silenzioso e con uno sguardo naufrago, quasi a dire: io non volevo, mi ci hanno mandato qui, poi invece posiziona l’appoggio dello strumento e la sua presunta evanescenza si fa concreta, con l’arco crea una drammaturgia sonora di pregio, mai sovrastante ma piena. L’indagine sulla relazione padri-figli si articola soprattutto quando l’incantamento amoroso coglie i due protagonisti del titolo. Sarà una storia pervasa dalla morte, da qui in poi. Il mancato ricorso alla saggezza nel fermare il crescente stato di violenza è una colpa che i padri non possono eludere ma, quando dovrebbero occuparsi della delirante faida veronese, leggono il giornale ed è con tale carico di indifferenza che esercitano la decisione di non intervenire. Essi parlano davvero con i loro figli o stanno parlando con sé stessi, con il proprio potere? Questa netta linea drammaturgica, tuttavia, non sarebbe così densa se non fosse sostenuta da due attori eccellenti, abilissimi nel doppio ruolo di interpretazione e di collante tra le sottili sfumature in cui gli altri attori cercano di mantenersi, indirizzando con diversi metodi – serafico e indolente Perinelli, paterno e laido Trapani – l’irruenza scomposta dell’adolescenza. E poi. E poi c’è Rosalina. Personaggio secondario ma in questa versione considerato una vera chiave di lettura: l’amore tradito che prova per Romeo, la sua sofferenza inguaribile e sotterrata da eventi ben più noti, sono l’emblema del fatto che la vicenda, specialmente nei classici, corre il rischio di sostituirsi al tema di cui è portatrice. Il finale è un brivido: al rallenty arriva la morte e con un cartellino nero si lascia la contesa, una canzone sommessa di inizio anni Settanta (Albergo a ore di Herbert Pagani, qui nella versione di Gino Paoli) accompagna i due ragazzi fuori da tutto, ignorati dai padri che ora li rimpiangono.
Simone Nebbia, teatro e critica


Sono adolescenti qualunque, Romeo e Giulietta, timidi, impacciati, arrabbiati, estremi negli slanci e nelle paure come solo a quell’età si può essere. Se ne stanno in disparte a guardare distrattamente i compagni che proprio non ce la fanno a tenere le mani a posto e che, tra spintoni, grida e insulti, giocano un calcio urlato, rabbioso, insostenibile. Dalle panchine i due allenatori neanche sembrano accorgersene della sarabanda a centro campo, nascosti come sono dietro ai giornali che, impassibili, continuano a sfogliare, incuranti del caos. Qualche occhiata furtiva, un ammiccamento subito celato, rapide stoccate amplificate dai microfoni custoditi tra le mani che inaspriscono ancora di più il contenzioso in essere. Poi di nuovo silenzio e indifferenza. Eppure porta il loro nome quell’odio sudato a colpi di pallone, Capuleti e Montecchi, il marchio di fabbrica di una genia di padri senza responsabilità, privi di affezione, narcisi ed egoisti perché incapaci di sintonizzarsi sull’altro. Le urla non distolgono il loro torpore, ed ecco allora un violoncello (del silenzioso e impressivo Luca Tilli) farsi largo tra le note sguaiate del dolore nel tentativo di armonizzarle, di placarle per un attimo con la sua lingua densa. E anche quando l’amore tra i rampolli delle due famiglie sembra prendere il largo, è nelle ombre che si riscopre la bellezza accecante di un sentimento sprecato, di un fallimento tra simili, di esistenze ai margini non comunicanti, come Rosalina che, dimenticata da Romeo, si stacca dal buio per ritrovare nella poesia una sua cruda dignità. La morte arriva a gamba tesa in questa periferia bruciata che la compagnia Biancofango riscrive da Shakespeare, insieme a un gruppo ispirato di dodici giovanissimi attori reduci da un laboratorio intensivo. Mercuzio e Tebaldo sono i primi ad essere espulsi dalla mischia, poi è la volta di Romeo e Giulietta che, al rallenty, sulla melodia struggente di “Albergo a ore” di Herbert Pagani, nella versione cantata da Gino Paoli, vedono ergersi davanti a loro il cartellino nero della sconfitta, dell’infelicità perenne e inguaribile. E’ nell’assenza che si consuma la vendetta sugli adulti, è nell’assenza che il rimorso brucia senza più parole. Romeo e Giulietta, ovvero la perdita dei Padri con partitura scritta di Francesca Macrì, anche regista, e di Andrea Trapani, in scena nei panni del genitore Capuleti insieme a Simone Perinelli, il capofamiglia dei Montecchi, una coppia inossidabile, è una drammaturgia fallosa di contropiedi e di ripartenze, di fuorigioco scongiurati da parate improvvise e dribbling smaccati, toccanti. E a dare corpo a questa coreografia dello sport, una gioventù irriverente, affamata, impagabile. Da prendere a schiaffi e da amare.
Valentina De Simone, Che teatro che fa


È proprio da un vuoto che comincia il Romeo e Giulietta di Biancofango, da un’eredità che non si riesce a trasmettere, da due mondi paralleli e distanti che non sanno comunicare: poco importa se i padri siano quelli reali, ideali o culturali, il dramma è sempre lo stesso. Ed ecco allora che quando la paura del vuoto attanaglia, subito si cerca di riempire quella carenza con qualcosa, fosse anche la rabbia, purché tamponi il dolore. Non facciamo in tempo a entrare in sala, infatti, che già le grida ci sbattono contro, lungo i corridoi: tra spintoni e insulti, una masnada di adolescenti sudati sta giocando animatamente sul palco a calcio. Nulla di strano, no, sono Montecchi e Capuleti, che si scontrano proprio come facevano quattrocento anni fa, destinati oggi come ieri alla sventura. E la morte, difatti, girovaga placida fra di loro nei panni scuri di Luca Tilli che di lì a poco con il suo violoncello darà voce al non detto. Appena più in fondo, infine, seduti in panchina, i due capifamiglia, o meglio, i due CT, osservano annoiati e indifferenti quel lento gioco al massacro (Simone Perinelli e Andrea Trapani, carismatici e misuratamente complementari). Lasciati allo sbando, i ragazzi non possono che sporcare di rabbia stanca le occasionali battute del testo originale, ma non c’è trivialità, anzi, la tragedia shakespeariana brucia attuale sulle loro labbra, come una bestemmia impronunciabile di sentimenti repressi. E i due genitori, dal canto loro, si dimostrano i più colpevolmente ridicoli: nel ruolo paradossale di allenatori incapaci di impartire valori, tiranneggiano svogliatamente sulla gioventù, piegandola a un lassismo ideologico e sentimentale più crudele di una percossa. Così, mentre si consuma la storia della coppia più famosa della letteratura, in controluce appare il dramma degli emarginati, di quei personaggi “secondari” costretti a patire il loro dramma “minore” al buio: ecco allora Rosalina, primo amore di Romeo, sprofondare (una splendida epilessia à la Bausch) nell’ombra della nuova fiamma del primogenito Montecchi, o Paride, eterno pretendente di Giulietta, vedere i propri sentimenti manipolati come semplice mezzo di ricatto dallo zio Capuleti. (…) Il Romeo e Giulietta diretto da Francesca Macrì (che insieme a Trapani firma la drammaturgia) invece è, sì, contemporaneo ma nella misura in cui lo stesso Shakespeare era contemporaneo quattro secoli fa: la “contemporaneità”, infatti, non ha né una data di produzione né una di scadenza – e lo stesso vale per un’eredità culturale.
Giulio Sonno, Paperstreet


Racconta il mondo violento degli adolescenti, Romeo e Giulietta. Ed è un progetto che va oltre lo spettacolo, quello della compagnia Biancofango, che lavora con loro per restituire un senso nuovo ad un classico dei classici, facendone emergere in chiave fortemente attuale il tema portante: la visione che i giovani siano, si, miscela esplosiva, ma che la miccia sia spesso innescata proprio da quegli adulti che maggiormente li dovrebbero strutturare e tutelare. (…) Una drammaturgia che parte dal linguaggio, dunque, rifondandone l’etimologia nel lessico quotidiano, naturalmente incolto, ma efficacemente “sporcato” dalla penna dell’autore che lo alleggerisce, capace di far volare le frasi anche se polverose e infangate dalla strada. E scelte di regia molto nette: i protagonisti ridotti ai ruoli chiave, un mondo di ragazzi e due figure paterne, diverse ma a loro egualmente inadeguate; una voce super partes, che nel nuovo gioco dei ruoli è giustamente femminile, due amiche del cuore al posto dell’anacronistica balia, e un finale inevitabilmente drammatico, ma risolto con toccante delicatezza.
Mario Di Calo, Femaleworld


Sul terreno di uno spazio scenico completamente sgombro, su cui non si ritrova ricerca estetica in senso classico, si gioca una partita di pallone, come nei “campetti di periferia” citati dal programma. Nel mezzo di quella partita che puzza di scarpe da ginnastica usate il pubblico si accomoda, mentre fra le squadre in breve nasce e si accende bruciante un dissidio più forte, quello tra Capuleti e Montecchi, che si converte in rissa, cui seguirà l’ultimatum del Principe a cessare le faide cittadine. Come l’incipit, tutta la tragedia è spostata, costumi, situazioni ed elementi scenici, in una contemporaneità che s’integra bene con le battute aggiunte e le trovate sceniche dei due capifamiglia, per lo più attenti a che lo scontro non dilaghi in violenza, che insomma tutto resti nell’alveo rassicurante delle ragazzate, di una partita di pallone, di un paio di parole troppo forti, di impuntature cameratesche, bullerie di strada, strafottenze da scappellotti. (…) E se il ballo dei Capuleti diventa un party in cui il capofamiglia s’improvvisa squallido dj mentre gli scontri cittadini sono partite da strada, cagnare e baruffe, le uccisioni di Tebaldo e Mercuzio vengono lasciate nella veste originale: i due effettivamente muoiono, in una scena resa con un efficace benché raddoppiato ‘ralenti’ calcistico. E anche i due amanti convolano in matrimonio segreto, proprio come in Shakespeare. Sono attimi in cui, oltre allo spazio, è la materia del dramma che subisce un improvviso ritorno alla lettera, e la scala immediatamente cresce, smisuratamente, sotto i nostri occhi, ripiombandoci – non senza il necessario respiro atto a riprendere l’equilibrio – nel dramma di sangue. Sembrerebbe in queste scelte di scale differenti il senso dell’operazione drammaturgica. È in quei momenti, in quelle scelte in cui l’attribuzione di omicidi e sposalizi a ragazzi qualunque, comuni, odierni, vuole forse suggerire che il nobile e il grande, quando traghettati dal dolore e dal sangue, quest’epoca non sa più rintracciarli, se non nel cuore degli adolescenti, immutato. Che nobiltà, grandezza e sangue esistono solo se gli adolescenti se ne fanno mallevadori, portatori, come di un virus, nel corso delle vene, mentre i grandi assistono ottusi, pateticamente imbolsiti da consumismi e quietovivere. E se la recitazione energica e senza timori dei ragazzi non s’imbatte nella maggior parte dei cliché da laboratorio – mentre ottimi e spie-tati brillano Simone Perinelli e Andrea Trapani nelle parti dei genitori –, è nelle figure liriche e impiastrate di autentica umanità, è nei corpi di Rosalina e Paride che la tragedia partorisce il dramma, e che dall’olocausto tragico riesce a spuntare in un germoglio che ferisce e si protrae. Lei, personaggio muto nel dramma di Shakespeare e lui, il conte rifiutato da Giulietta ma impostole dal padre, sono colpiti di striscio dall’esemplare, dal tragico, che si consuma pienamente in Romeo e nell’amata, riportandone una piaga sanabile ma da cui non si può guarire. Che sarà di loro? Schiacciati in un duplice suicidio faranno gradita, usuale corona alla catastrofe; vivi, negli anni porteranno la modernissima piaga dell’irrisolto che passa per gli occhi di chi ha visto.
Carlo Lei, Krapp’s Last Post