In punta di piedi

drammaturgia e regia Francesca Macrì e Andrea Trapani
con Andrea Trapani
disegno luci Mirco Maria Coletti
anno di produzione 2006

 

Insomma cos’é che la ipnotizza nel calcio, Pasolini?
“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. Il cinema non ha potuto sostituirlo, il calcio si. Perché il teatro è rapporto fra un pubblico in carne e ossa e personaggi in carne e ossa che agiscono sul palcoscenico. Mentre il cinema è un rapporto fra una platea in carne e ossa e uno schermo, delle ombre. Invece il calcio è di nuovo uno spettacolo in cui un mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso. Perciò considero il calcio l’unico grande rito rimasto al nostro tempo”.

Guido Gerosa intervista P.P.Pasolini, “L’Europeo”, 31 Dicembre 1970

Firenze, l’adolescenza e il calcio.
In punta di piedi nasce dall’intreccio di queste tre tematiche e dai profumi persistenti degli anni Ottanta, ancora troppo vicini per guardarli come una vecchia fotografia e a sufficienza lontani per avvertirne sulla pelle la ferocia della memoria.
Un adolescente e la sua città, bella di una bellezza rara, ma refrattaria al gioco e schiava della competizione per natura. Firenze che ama farsi guardare, ma mai che ri-guardi, se potesse, colpirebbe alle spalle tutti quelli che vorrebbero possederla.
Un adolescente e l’ossessione di una generazione, un fanatismo lungo un secolo: il gioco del calcio.
Nelle parole di Pasolini si può e si deve avvertire la forza di un simbolo, quale quello calcistico, che è stato in grado di unire migliaia di corpi in una sola e unica anima. Troppe poche altre realtà sono riuscite, in questo lungo ‘900, a spingersi così in profondità nella ritualità.
Il calcio ha vinto. Ha stra-vinto. Ma con il passare del tempo, degli anni, qualcosa in questa ritualità si è rotto, il potere delle televisioni e dei mass media ne hanno deturpato la genuinità e gli anni Ottanta hanno immortalato la parabola finale di un calcio ritualizzato che stava per consegnarsi alla luce accecante della spettacolarizzazione mediatica. Niente sarebbe più stato lo stesso.
Questi sono gli anni di Mastino, il protagonista di questo monologo: gli anni della marcatura ad uomo, dei duelli corpo a corpo e dei numeri sulle maglie a fissare ruoli ben precisi.
È una domenica mattina qualunque, in un qualunque campetto di periferia toscano, di quelli dove l’erba non cresce mai. Mastino vorrebbe giocare, ma il mister lo relega, come sempre, al ruolo di panchinaro. Come giocatore è piuttosto scarso e frequenti sono le occasioni in cui gli viene fatta notare la sua inattitudine al gioco del calcio, ma come spesso accade a diciotto anni, certe verità sono piuttosto faticose da capire e, ancor più, da accettare. A diciotto anni fuori dal calcio spesso può voler dire fuori dal giro, il giro giusto, che ti fa sentire parte di un tutto, a scuola come a passeggio per i quartieri della città.
Dalla panchina Mastino vive l’agonia di un’ennesima, lunghissima domenica da escluso.
Guarda la partita, dialoga con il mister, parla di sé e del suo eterno rivale, quel numero 11 nel campo da calcio come nella vita: Golgòl, soprannominato così per la sua abitudine a ricalciare il pallone una volta entrato in rete, come a specificare che è suo il piede che ha dato vita alla mossa vincente. Questo giovane fantasista è il simbolo di tutta la sofferenza di Mastino, perché è tutto quello che lui, a diciotto anni, non riesce ad essere.
Seduto su questa panchina-prigione Mastino lo guarda, lo ammira e lo odia.
I minuti scorrono uguali ad ogni domenica fino a quando l’arrivo di una fanciulla non stravolge la consuetudine, spingendo Mastino a disobbedire al mister, pur di entrare in campo, per giocare, una volta per tutte, la sua partita. Forse l’ultima.