Io non ho mani che mi accarezzino il viso

Ho messo il mio cuore nel cavo della mia mano
lo guardavo come chi guarda dei grani di sabbia o una foglia
lo guardavo pavido e assorto come chi sa di essere morto;
e la mia anima era commossa dal sogno, non dalla vita.
Pessoa, 20 gennaio 1913

 

drammaturgia Francesca Macrì e Andrea Trapani
regia Francesca Macrì
con Aida Talliente e Andrea Trapani
collaborazione al progetto Aida Talliente
costruzione scene Teatro della Tosse
luci Gianni Staropoli
suono Umberto Fiore
direzione tecnica Massimiliano Chinelli
produzione Teatro dell’Elfo, Fattore K, Fondazione Luzzati -Teatro della Tosse
in collaborazione con Armunia, La Città del Teatro di Cascina, Teatri di Vetro, Twain Residenza di Spettacolo dal Vivo a Ladispoli
anno di produzione 2018

 

anteprima nazionale
1, 2 novembre 2017 RomaEuropa Festival, Teatro India, Roma debutto
21 novembre – 3 dicembre 2017 Teatro Elfo, Milano

Io non ho mani che mi accarezzino il viso è un titolo che rubiamo con amore a una poesia di David Maria Turoldo e a una sequenza di fotografie di Mario Giacomelli. Ne chiediamo in prestito la cornice, cioè il titolo, e non il contenuto che ad altro si rivolge.

Due attori – Aida Talliente e Andrea Trapani – e una domanda: qual è il personaggio della letteratura teatrale la cui fragilità sembra riguardarti? Le cui parole potresti dire anche tu, tu in quanto persona e non in quanto attore?
Queste le risposte: Santa Giovanna dei Macelli di Brecht e Woyzeck di Büchner.

Da qui è iniziato il nostro nuovo progetto artistico.
Un viaggio dentro e nei dintorni della fragilità. La fragilità di chi ha vissuto solo tra le pagine di un libro e quella di chi, sulle assi di un palcoscenico, ci mette la faccia.
Dal personaggio, al ruolo, all’attore, alla persona. Lo scivolamento è inevitabile. I ritratti si sovrappongono, ma non si fondono. Il ritrattista preme per diventare lui stesso il ritratto. Lo scambio è continuo. E non si sa dove sia il vero e dove sia il falso, dove sia il reale e dove la finzione, dove finisca il teatro e dove inizi la vita.
Ma in fondo questo non è importante.

Da qui è iniziata la nostra ricerca e il nostro lavoro di drammaturgia scenica e attorale. L’incontro – contemporaneo, fuori e al contempo dentro le rispettive storie, irreale, non ancora scritto – tra due personaggi della storia della letteratura teatrale. Come creature sopravvissute a un incompiuto dramma pirandelliano, come evocati da un testo di Müller, queste due solitudini attraversano la scena e combattono una – personalissima – battaglia nel nome della loro individualità. Percorrono strade inevitabilmente parallele, sono il ritratto in carne ossa di un fallimento già accaduto altrove, lontano nel tempo e nello spazio, ma qui s’incontrano, si scontrano, sono obbligati al dialogo e hanno un solo punto in comune: la fragilità.

FOTOVIDEORASSEGNASGUARDI CRITICI


‘Io non ho mani che mi accarezzino il viso’. Questo il (bellissimo) titolo. E ci si commuove. Di fronte a questa vita bestia. A un essere umano fragile, votato al fallimento. Drammaturgia pensatissima. Dove la realtà s’intreccia con Brecht e il Woyzeck. Forse il progetto più ambizioso di Biancofango: antinarrativo, rumorista, ipnotico. Uno spigoloso vertice poetico. Su cui l’Elfo ha fatto bene a scommettere.
Diego Vincenti, Il giorno


La regista Francesca Macrì ha chiesto agli attori, Andrea Trapani e Aida Talliente qual è il personaggio teatrale la cui fragilità è anche la loro e la scelta è stata Santa Giovanna dei Macelli di Brecht e Woyzeck di Büchner. Le due figure della finzione diventano la “maschera” attraverso cui mostrare se stessi, tra lunghi soliloqui e brevi battibecchi su Dio, vita, catastrofiche visioni future come nel suggestivo finale. Biancofango, nata nel 2005, è una delle realtà importanti del nostro teatro, protagonista di alcuni spettacoli felici, da Porco mondo all’indagine sugli adolescenti di Romeo e Giulietta al Bellini di Napoli. Questo nuovo lavoro, in uno spazio semplice, conferma il serio lavoro sugli attori: parole amplificate e non, Schubert al piano e suoni al microfono, effetti di luce euna fisicità ossessiva compongono una scrittura scenica efficace. (…) Uno spettacolo lontano dai luoghi comuni così vecchi di tanto nuovo teatro.
Anna Bandettini, La Repubblica


Ci sono spettacoli che lasciano un segno per la combinazione degli elementi dosati con intelligenza, per la bravura degli artisti in scena. E’ il caso di IO NON HO MANI CHE MI ACCAREZZINO IL VISO, della compagnia BIANCOFANGO, presentato in anteprima a ROMAEUROPA FESTIVAL, coprodotto da Teatro dell’Elfo, Fattore K e con il Teatro della Tosse. Un viaggio fra le parole di “Santa Giovanna dei macelli” di Brecht e “Woyzeck” di Buchner, riscritte, immaginate e sognate in chiave contemporanea sulla musica di Schubert.

Un viaggio nella fragilità delle nostre coscienze. Dedicato a chi non ha mani che accarezzano (Il titolo è tratto da una sequenza di fotografie di Mario Giacomelli). (…) La regia di Francesca Macrì, in uno spazio-tempo destrutturato e scomposto, fa scorrere la parola scenica nella notte delle coscienze. (…) L’inconscio rappresentato da un grande specchio che ruota si incarna in Aida Talliente e Andrea Trapani, teatralmente perfetti, tracciano segni sulla scena con il loro corpo sonoro e luminoso e raccontano, come in un’aula di tribunale, le vicende di Santa Giovanna dei macelli e di Woyzeck. (…) I due ritratti scenici si susseguono e si contaminano, in uno scambio continuo, fuori e dentro i personaggi. Dove finisce il teatro e dove inizia la vita? Significati secondari, diventano essenziali, l’invenzione scenica della compagnia regala sorprese: Woyzeck personaggio vuole uscire dalle pagine della sua tragedia incompiuta; Santa Giovanna come in una preghiera grida verso il pubblico: se sperassimo tutti insieme con forza, con convinzione il mondo sarebbe migliore. All’inizio e alla fine il cerchio si chiude, due momenti significativi per riflettere sulla natura dell’uomo, sul senso del teatro oggi, sempre più governato dal troppo. La scena si apre e si chiude in modo onirico, ci si sveglia da un sonno profondo e si finisce nel sogno. Sonno e sogno non sono la stessa cosa, sono due dimensioni diverse dell’animo. Il sonno della ragione genera mostri: “Non si sa mai ciò che basta fino a che non è troppo”. La scena termina in un desiderio: vivere come in un sogno. Perché il teatro anche quando racconta i conflitti più dolorosi, le azioni più disumane (“è dunque il cielo su di noi chiuso per sempre”), è sempre un sogno che racconta una vita reale.
Angela Villa, Dramma.it


La fragilità è il loro terreno di esplorazione elettivo. La fragilità delle idee e degli ideali. La fragilità dei sentimenti. Dell’individuo. Delle relazioni. Delle certezze. Del futuro. Dei ricordi. La fragilità dei giovani e degli adolescenti. La fragilità del mondo e di Dio; quella del mondo senza Dio. E infine (e tanto più): la fragilità del teatro. (…) Adesso Francesca Macrì e Andrea Trapani, ovvero le due anime pulsanti della compagnia Biancofango, cui si aggiunge ancora una volta (dopo la bella prova di Porco Mondo ) il prezioso contributo dell’attrice Aida Talliente, quel precipizio nel vuoto e delle disintegrazioni del cuore, la elevano a materia del loro ultimo lavoro, Io non ho mani che mi accarezzino il viso, che segna una cesura forte con le loro precedenti produzioni e che senza dubbio, pur senza rinnegare quanto seminato in passato, apre una nuova fase di ricerca stilistica. (…) Ispirato ad una poesia di David Maria Turoldo e a una sequenza di fotografie di Mario Giacomelli, Io non ho mani che mi accarezzino il viso pone l’essere donna e l’essere uomo – e tanto più l’essere attrice e attore – nella vacuità di una forma scenica ‘aperta’, quasi brechtiana, straniata, dove l’io degli interpreti intreccia di continuo il vissuto scenico di due personaggi drammatici molto noti: Santa Giovanna dei Macelli di Brecht e Woyzeck di Büchner. Due vicende diverse eppure affini. Due battaglie personali e, insieme, universalmente emblematiche. Due modi di essere ingenui, idealisti, vittime delle proprie utopie, dei propri principi, della propria sensibilità. Vittime, in definitiva, della propria follia. (…) In questo continuo rimescolamento di materiali, entrambi gli interpreti assumono le sembianze reali e fittizie di paladini della liberà, della miseria umana, della speranza. Entrambi sono attori/esseri umani che abitano lo spazio sospeso tra reale e finzione dove generare/mostrare il baratro della loro duplice condizione. Si raccontano sogni, vicende di operai in fabbrica, amori perduti. Ma si racconta soprattutto la perdita di un centro. Di un nocciolo di umanità. E perciò siamo tutti dentro questo luogo-non luogo di luci e ombre. Tutti siamo chiamati in causa. Non possiamo sottrarci. Queste paure sono le nostre paure. I due corpi danzano. Ripetono movimenti che sembrano urla. (…) Ma qui, in questo grottesco gioco di specchi che è Io non ho mani che mi accarezzino il viso , c’è pure e soprattutto tutto un nuovo modo di consegnarsi nudi alla nudità stessa della scena e del teatro. C’è uno svelamento di sé che va oltre la quarta parete. (…) Eccoci di fronte ad un’epicità lirica, inconsueta e fragile (volutamente), eppure fortissima. Rafforzata tanto più dall’epilogo, quando cade della neve dall’alto quasi a voler immergere nel silenzio di una pacifica folata di bianco le loro/nostre domande più profonde. Su quel palcoscenico spoglio e quasi infinito, esse diventano un appassionato inno all’umanesimo che è in noi. Un richiamo al nostro bisogno ancestrale che ci sia qualcuno o qualcosa ad accarezzarci il viso sempre. E sempre. E sempre.
Laura Novelli, Limina Teatri


Io non ho mani che mi accarezzino il viso, un originale e concentrato tentativo di proporre in scena la poesia e le riflessioni che quel denso linguaggio riesce a suscitare. Lo spettacolo giunge a cinque anni di distanza da Porco
BIANCOFANGO
Mondo e dopo l’intensa attività realizzata con gli adolescenti – a Roma e, nell’ottobre scorso, a Napoli – a partire da Shakespeare e, in particolare, da Romeo e Giulietta. Un percorso dilatato nei tempi che corrisponde a un analogo tragitto compiuto dalla compagnia – Francesca Macrì e Andrea Trapani – all’interno della propria ispirazione e del proprio peculiare linguaggio. Un viaggio di formazione e crescita che ha condotto a toni certo più “pacati” ma non meno sferzanti; a un’interrogazione sul senso più profondo dello stare al mondo che, alla rabbia, ha sostituito una disincantata ma non meno disperata – e disperante – lucidità; a un’ammissione di debolezza che è testimonianza di granitica forza d’animo.

RF (Renzo Francabandera): Biancofango è sicuramente una realtà della scena italiana di quelle che si muovono in una dimensione creativa autonoma e originale, cercando con fatica il proprio linguaggio nel tempo, attraverso progetti e iniziative che stratificano nel tempo le scelte estetiche, distillano il coraggio del proprio segno, della cifra e del sostrato concettuale dell’indagine. Attraversare come hanno fatto loro il senso della poetica interiore per tradurlo in un fatto d’arte, che non sia scelta del fare ma del sentire prima di tutto, è cosa rara, di cui alla compagnia va dato atto. Scegliere rispetto a questo da quale parte stare, nel nostro tempo così povero di risorse, non è banale. Penso a questa scelta come al tentativo, prima ancora che di fare arte, di comprendere la società in cui si vive, e stabilire in che relazione si è rispetto a essa, e poi da questo far scaturire la ricerca e l’urgenza del proprio segno. LB (Laura Bevione): Ci sono Schubert e la neve, un’atmosfera dilatata e sospesa, abiti elegantemente neri, in Io non ho mani che mi accarezzino il viso, spettacolo che si interroga sulla “fragilità”, partendo da due personaggi della letteratura teatrale – Woyzeck e la Giovanna di Santa Giovanna dei Macelli – in cui i due interpreti – lo stesso Andrea Trapani e Aida Talliente – si identificano, brechtianamente però.

RF (Renzo Francabandera): (…) Anche perché in questo spettacolo da raccontare non c’è una vera e propria vicenda, secondo me, perché si incontrano due caratteri che vivono il respiro del raccontare quale forma possibile della speranza. La poetessa dal tratto quasi sacerdotale (Aida Talliente) e il pianista operaio (Andrea Trapani), il loro incomprensibile, a volte, riferirsi a questi due rimandi letterari, come ad archetipi dell’identità profonda, senza che però ciò si riveli veramente la chiave per la comprensione del tutto, è una sottile operazione di crocifissione dello spettatore alla sua componente irrazionale e debole.

LB (Laura Bevione): I due attori entrano ed escono da quello che non è tanto un personaggio, quanto una figura/epitome di un modo di stare al mondo con il quale si avvertono intime affinità. La rabbia esterna e rumorosa di Porco Mondo si fa interiore e universale, la consapevolezza della maturità non cancella l’illusione – «speriamo tutti insieme» scrive sul pavimento l’attrice – e gli sbigottimenti – la neve del finale – dell’infanzia.

RF (Renzo Francabandera): Siamo di fronte ad un’operazione, fuor di ogni dubbio, coraggiosa. (…) Perché ha scelto di abiurare al fatterello teatrale, al compiacere il pubblico. Lo lascia con nient’altro che il coccio, il pezzo di vetro tagliente di un sentire che lo spettacolo aiuta a vedere ma che consegna a chi è al di qua della quarta parete sapendo di guardarlo fisso negli occhi e intendendosi non sul fatto che il pezzo tagli, ma sulla certezza che lo abbia già fatto.

LB (Laura Bevione): Azioni e dialoghi rifuggono frenesia e grida preferendo sottolineare e rimarcare determinati passaggi con un inventivo ed esso stesso “poetico” disegno luci e un discorso drammaturgico parallelo e complementare sulla voce e sul suono realizzato agendo sulla distorsione e sull’utilizzo di vari microfoni.
RF (Renzo Francabandera): Dal punto di vista sia interpretativo che registico in senso ampio l’esito è ricco, composito, non banale. (…) Siamo certamente di fronte a una creazione interessante, che ricorda alcuni passaggi della Gualtieri e freddezze sceniche che ricordano alcune scelte di Ronconi o della Calamaro, ma che in questo composto drammaturgico hanno un’indubbia cifra di originalità.

LB (Laura Bevione): Uno spettacolo che testimonia di una ricerca – esistenziale prima ancora che drammaturgica – personalissima e testarda, refrattaria a mode e ammiccamenti e strenuamente coerente nell’indagine sul senso profondo del nostro stare al mondo e di conseguenza, sul palcoscenico.
Laura Bevione, Renzo Francabandera, PAC


C’è una profondità che un uomo sa raggiungere solo se permette ai sentimenti altrui di albergare assieme ai propri, nel cuore di una palpitazione aritmica, in apparenza, ma che invece compensa diseguaglianze e si fa suono armonico, ordinato in una forma compenetrata. Accade, tale miracolo, per coloro che siano in grado di farsi attraversare come fossero veicolo di esperienze, di emozioni, di una ricchezza vasta e indefinita: gli attori, capaci di stare qui e altrove, in sé e in altri, oggi e in un tempo remoto, inaffidabile. Una vocazione, la loro, una missione di accoglienza perché sia possibile l’interpretazione, non già di un personaggio, ma del mondo, per tramite della propria qualità mimetica. Se ne porta il segno una scelta coraggiosa, quella di Biancofango, compagnia ormai decennale che accoglie la domanda sul concetto di rappresentazione e sull’appartenenza dei sentimenti esibiti, abissali, irredenti. Io non ho mani che mi accarezzino il viso, citazione da una raccolta del poeta David Maria Turoldo e di una sequenza fotografica di Mario Giacomelli, è ora – non uno spettacolo ma – teatro nella sua forma più intima, in anteprima al Teatro India per Romaeuropa Festival 2017 e al debutto al Teatro Elfo Puccini Milano.

C’è una domanda, urgente e densa, posta ai due attori che saranno in scena e che presiede alla creazione artistica: quali parole appartenenti ai personaggi della storia letteraria teatrale risuonano nella propria intimità umana? Aida Talliente e Andrea Trapani scelgono, accolgono la domanda e la dispongono per la regia di Francesca Macrì lungo la porosità della propria cute esistenziale: Giovanna dei Macelli di Brecht e Woyzeck di Büchner. (…) Il dialogo che nasce, ora fitto ora rado, tra i due attori, produce una frattura sempre più evidente tra le due entità, nello spazio che le luci perimetrali e gravi di Gianni Staropoli disegnano con l’ormai acclarata qualità poetica, capaci di liberare la bocca di Andrea (Trapani), ciò che appare di Giovanna è sull’espressione di Aida (Talliente), vittime dei personaggi ma colpevoli di parole ormai macchiate, sporcate dalla loro organica evidenza di uomini e donne nell’alterità della rappresentazione. Biancofango si conferma come una tra le realtà più sensibili allo sviluppo di un linguaggio di attore che sia connaturato a una competenza drammaturgica; ma questa vocazione già manifesta nell’intero percorso creativo (…) segna un cambiamento stilistico deciso, necessario: una sofferenza dolente e appuntita si mescola alle intenzioni registiche, rintracciando familiarità spiccate (e spesso dichiarate) con il teatro di Danio Manfredini; alle assonanze dolci si succedono dissonanze isterizzate, si rincorrono e si tolgono di volta in volta il campo, che si tratti di parole strappate alle bocche o di musica, dolce o persuasiva, che penetra fino ai più desolati angoli di una scena
BIANCOFANGO
spoglia. Allo stesso modo lo spazio dipinto da Macrì e Staropoli, abitato dal suono di Umberto Fiore, vira da luminosità fredde a un calore vasto ma sospeso, seguendo le diramazioni indicate dai blocchi testuali che gli attori offrono e soffrono, di qua e di là dai personaggi. In un ambiente di questa natura, ad un tempo dimesso e rivoltoso, violato e violento, il senso di suono e parole nidifica nei corpi degli attori, i loro spasmi e i desideri, l’umanità delicata, priva dell’arrendevole giudizio della decadenza.
Simone Nebbia, Teatro e Critica


Qui l’incomprensibilità dell’esistenza umana si sposta dal piano orizzontale dell’azione-reazione alla discesa nell’abisso interiore. Ancora una volta una scena cupa, cruda, bunker del fondo umano. È il purgatorio in vita dei vinti, di coloro che vorrebbero magari fare, agire, andare oltre, ma non sanno, non sanno proprio come—e se. E a che pro, poi? (…) Qui incontriamo due individui. Un uomo. Una donna. Tutt’altro che una coppia. La somma ormai è negata. Perché di questi tempi tutto è frammentato. Neanche i cieli sono più fissi. Allora magari agire in nome di un dio—o contro. Ma dio dov’è? «Morto» nella coscienza dell’uomo, diceva Nietzsche. Con tre secoli di razionalità e progresso ce ne siamo affrancati. Epperò manca. Ci manca. Perché quando un potere superiore viene a mancare davvero, quando la libertà (non la liberazione, non l’emancipazione da) diventa possibile, reale, realizzata, ecco che l’uomo è ben altro che felice. È solo. Assolutamente solo. E perso. Non si può allora che girare in tondo, avvitarsi su sé stessi. Come l’impietosa luce di Staropoli che ribadisce il vuoto, il buio, e al contempo l’abbaglio: tutti lì, noi uomini, a inseguire un riflesso. Ma l’origine dov’è? esiste? (…) C’è da ricominciare, anzi, meglio, c’è da ritornare a noi, al nostre essere esseri umani: individualmente e collettivamente al tempo stesso, senza che l’una sfera pregiudichi l’altra.
Giulio Sonno, Paper Street


Chi ama la scrittura teatrale conosce da tempo i Biancofango. Che sembra abbiano iniziato ieri. Ma intanto sono già passati più di dieci anni e quella che era una giovane realtà da tenere d’occhio è diventata un progetto solido, che collabora con i palcoscenici più importanti. In questo caso l’Elfo Puccini. (…) Ma non è mai mancato il coraggio a Francesca Macrì e Andrea Trapani ancora una volta insieme a firmare una drammaturgia che ruba il titolo ad una sequenza di fotografia di Mario Giacomelli. (…) Ma è solo uno spunto. La fascinazione di un’immagine evocativa. Per un lavoro che intreccia la riflessione sul mestiere d’attore con alcuni riferimenti letterari ispirati ad una domanda: qual è il personaggio la cui fragilità sembra riguardarti? (…) Da questa riflessione profondamente individuale nasce un percorso umano che si focalizza sul concetto di fragilità. Travalicando il teatro per arrivare a una quotidianità di pensiero (e di inquietudine) che a molti appartiene. Si intrecciano le cicatrici. Si confondono i contorni delle rispettive debolezze. Mentre crollano i confini tra chi ha vissuto solo tra le pagine di un libro e chi ogni sera mette la propria faccia sulle assi del palcoscenico.. Ma non è questa una condizione che riguarda ogni maschera del nostro vissuto? (…) E allora meglio lasciarsi sedurre da quella scrittura di cui si diceva all’inizio. Da una dozzina d’anni in grado di raccontare le ombre grigie dell’animo umano. Il malsano e l’inquieto. Il fallimento e la tensione verso un sogno amaro. Dall’orizzonte sempre più confuso. Diego Vincenti, Il giorno


Autobiografia per interposto personaggio, si potrebbe dire – un’operazione novecentesca. La scena è nera, un pianoforte verticale sul fondo, occasionalmente strimpellato da Trapani; al centro una linea di tavoli, anch’essi neri, su cui sta una postazione audio per la produzione live di effetti, affidata alla Talliente. Sulla destra, tutto a vista come il Teatro India invita a fare, c’è una batteria di proiettori agli ioduri affiancata a uno specchio montato a un braccio rotante. Sull’americana di mezzo tre neon e un altro tubo sul fondo, sopra un pannello nero, centrale.

Lo spettacolo si dipana come una sorta di dialogo fra i due personaggi, Giovanna e Woyzeck, la cui libertà di dirsi è arginata solamente dalla presenza dell’altro. Entrambi di volta in volta sbugiardati, messi in ridicolo, in crisi dall’interlocutore, oppure lasciati liberi, faccia al pubblico, di citare, rielaborare, fuggire dalla trama dei rispettivi testi. La diversità, la ricerca della vicinanza con gli altri e di un senso di comunanza, la bellezza dell’esistente “qui e ora”, Dio, la propria animalità insopprimibile e scomoda: questi sono i temi. (…) Si accennava alla prepotenza quasi brutale degli effetti-luce. Sembra quasi che essi facciano da ponte ideale tra la progettazione degli elementi strutturali e un punto centrale nell’ambito del contenuto (e qui, in un’opera incoesa, è possibile fare questa divisione, anzi essa si pone da sé). Questo punto centrale potrebbe essere “l’esserci in parte”, l’essere mal riusciti, l’essere fuori della norma, perlopiù verso il basso, l’essere alla ricerca di qualcos’altro (perlopiù verso l’alto) che, chi più chi meno, Giovanna e Woyzeck esprimono. (…)
Carlo Lei, Krapp’s Last Post